ANEI / L’ARTE IN PRIGIONIA

Il padiglione è inteso come metafora delle capacità di resistenza dell’umano spirito e dell’arte creata nei campi di concentramento: “espressione di libertà, anche se si è in catene”.

Un solido geometrico compatto — temporale — viene attraversato da un’azione dirompente, dividendosi in due ambiti. Entrando nel volume cilindrico, nucleo baricentrico della composizione, il visitatore viene repentinamente abbagliato da una forte luce artificiale e sorpreso da sonorità aggressive. Una sopraffazione inattesa, disorientante ed immersiva, che diviene allegoria della sofferenza subita nei campi di concentramento (messa in atto anche con pratiche sonore coercitive). Il passaggio obbligato attraverso il cilindro conduce a due spazi ben custoditi, segreti, al riparo dal rumore. Luoghi sospesi, quasi immaginari, di alterità e silenzio, dove verranno esposte le opere d’arte salvate dai campi di prigionia. La transizione simboleggia la ricerca della luce nell’oscurità, l’ispirazione nella sofferenza e la forza dello spirito umano che è in grado di sopravvivere in situazioni fuori dal mondo, apparentemente senza speranza.

Non più la bieca retorica maiuscola, muscolare, del frangar, non flectar, bensì la disperata e tenace prassi del flectar ne frangar. Il padiglione si compone di materiali industriali prefabbricati, facilmente smontabili in situ, riassemblabili altrove. L’immagine di questa composizione asimmetrica, contemporanea e rigorosa al contempo, diviene specchio di una delicata condizione presente, dove stralci di memoria, seppur modesti, divengono preziosi appigli di verità, tracce vitali per custodire il passato guardando consapevolmente al futuro.